La macchina da presa è immobile. Il corpo nudo, straordinario nel suo plasticismo, del tedesco Michael Fassbender, cammina davanti allo sguardo di noi spettatori, lungo un corridoio circolare, dall'aspetto alquanto minimal. Si sente un messaggio dalla segreteria. Qualcuno lo cerca ma lui non risponde, continua a camminare in cerchio.
E' un camminare a vuoto quello del trentenne Brandon, un camminare senza meta e senza scopo.
Un po' come la porsche nel circuito deserto di Somewhere, straordinario emblema del vuoto di senso che permea il film della Coppola, anche in questa sequenza iniziale si può scorgere una sorta di dichiarazione di intenti da parte del regista Steve McQueen. Diciamo pure che ci vuole poco per comprendere dove il film voglia andare a parare: l'affascinante Brandon è un criceto nella ruota. Cammina cammina ma resta sempre lì, imprigionato nelle sua gabbia. Una gabbia fatta di ossessioni, perversioni, momenti di autentica umiliazione.
Brandon fa sesso continuamente ma senza trarne alcun piacere: è un sesso sofferto, masturbatorio, consumato nella fretta e nell'abiezione. Più che un gioioso film sul sesso e quindi sulla vita, Shame è un drammatico film sulla solitudine, sulla morte.
Un film di grande impatto emotivo, che con lucidità e compostezza riesce a sconvolgere chi lo guarda, grazie a immagini di grande tensione drammatica. McQueen non fa alcuno sconto ai suoi spettatori, non tenta neppure un momento di compiacerli, non rinuncia mai al suo sguardo oggettivo e violento.
All'uscita dalla sala si può essere soddisfatti (io lo sono stata molto) o delusi, ma certamente non ci si può astenere da qualche commento.
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