Johnny Marco, noto attore di Hollywood, passa le sue giornate a guardare le gambe. Prima quelle chilometriche, provocanti, delle lapdancer in completino da tennista che cercano di risvigliarne la libido; poi quelle delicate e eleganti di Clio, sua figlia, bambina di undici anni che volteggia leggera sui pattini, per attirare l'attenzione paterna. Le donne, in questo film, non fanno che esibirsi davanti a lui. La reazione di Johnny però è sempre la stessa: che si tratti di lapdancer o della figlia il suo sguardo è assente, annoiato, perso chissà dove. Delle lapdancer non ricorda neppure i nomi, e con Clio le cose non vanno poi molto meglio - lei pattina da tre anni e lui neanche lo sa, tant'è che si stupisce della sua bravura.
E' vuota la vita di Johnny, vuota e senza senso. Una vita vissuta in luoghi che sono non luoghi; trascorsa tra feste e divertimenti, in mezzo a corpi ammiccanti e sempre disponibili (corpi, però, mai persone). Una vita senza radici, senza affetti, senza qualcosa che la rende meritevole di essere vissuta. Solitudine estrema, alienazione totale.
E' di alienazione, infatti, che parla questo film. Sofia Coppola ce lo dice fin dalla prima sequenza, con quella inquadratura immobile - e non sarà certo l'unica del film - di una Porsche rombante che gira a vuoto (come la vita di Johnny, del resto), sul solito circuito chiuso. Una sorta di dichiarazione programmatica, un po' come se la regista ti mettesse in guardia: "attento, ti farò vedere un film che parla del vuoto di senso; se non lo sai sostenere ti conviene andartene subito via dalla sala".
Non è male il film della Coppola, solo che non regge il confronto con il bellissimo Lost in translation. Lì l'alienazione manteneva comunque un lato umano; c'erano le sfumature, c'era la vita vera. Qui tutto è calcato, portato alle estreme conseguenze. Tutto è talmente esagerato da sembrare "macchiettistico", un po' artefatto, forse pure un po' furbetto, come sostiene Mereghetti. Stephen Dorff è dignitoso nel ruolo, ma non ha il fascino di Bill Murray, non gli lega neppure le scarpe. Anche Los Angeles non compete con la Tokio di Lost in Translation, perché a Los Angeles tutti ci si aspetta di essere alienati, è scontato che sia così.
Per farla breve: Somewhere ha le sue cartucce ma ha un fratello maggiore troppo ingombrante, la sua è una battaglia persa in partenza.
Sì, Chiara... per esperienza diretta posso dire che QUELLA vita, sebbene ritratta veramente agli eccessi (dovuti ai soldi e al suo successo) è LA vita lì nella California del Sud... invece di un attore potremmo prendere una qualunque persona con un tenore di vita medio-alto e non si comporterebbe molto differentemente dal nostro protagonista... quanto meno qualcosa che fa riflettere, non trovi?
RispondiEliminaIo penso comunque che la storia fosse da raccontare... ne risulta un film veramente ma veramente bello che ho apprezzato tantissimo. Certo, Lost in Translation era PIU' in molte cose, rispetto a questo... ma un ritratto così malinconicamente realistico della società californiana... valeva la pena di essere raccontato. Brava Sofia!
Sul fatto che ci sia da riflettere non ci piove.
RispondiElimina