L'ultimo film di Kathryn Bigelow, che ha recentemente vinto l'oscar come miglior film, si distingue senza dubbio per un tratto: il minimalismo estremo. E' realismo allo stato puro. In un'epoca in cui si dispiega qualsiasi mezzo pur d'impressionare lo spettatore, la vittoria di un'opera come questa, realizzata in assoluta economia d'effetti speciali, desta un certo stupore.
Personalmente, proprio per allinearmi a un film tanto scabro ed essenziale, vorrei dilungarmi il meno possibile. Mi preme più che altro dire questo: trovo poco sensata l'accusa di militarismo o di cripto-fascismo, per citare Rampini, nei confronti della regista californiana, così come reputo un po' eccessivo far passare questo suo film per un'opera fortemente antimilitarista come ha detto Caprara.
The hurt locker ci mostra una squadra speciale di artificieri e sminatori americani sul fronte iracheno. La macchina da presa segue passo passo, a distanza di pochi centimetri, i corpi di questi giovani militari, e ce ne fa sentire il respiro. Noi soffriamo insieme a loro per la paura, e tiriamo con loro un sospiro di sollievo quando ci accorgiamo di poterlo fare. Sentiamo insieme a loro l'odore della sabbia che li circonda ovunque e vediamo il sudore sulle loro fronti, percepiamo il loro caldo atroce. Ci immedesimiamo in loro, è vero. Non potrebbe essere diversamente. Ma non per questo siamo indotti a vedere in loro degli eroi. Principalmente vediamo in loro degli esaltati, direi. Il messaggio più chiaro e lampante della Bigelow è questo: la guerra può diventare una droga. La regista non scende nel merito, non fa questioni morali. Si limita ad analizzare un fatto. In modo asciutto, scabro, oggettivo. Il fatto - la dipendenza del protagonista dal fronte di guerra - di per sè agghiaccia, inorridisce. Ebbene si, The hurt locker , pur non prendendo una posizione esplicita netta, non può che inorridire. E forse questo basta.
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