Volevo scrivere un post sulle dinamiche inquietanti che s'innescano al cinema, davanti a certi film. La grezzezza del pubblico fiorentino (su quello di altre località non posso esprimermi) merita senza dubbio una riflessione, ma credo che per adesso rimanderò.
Mi preme infatti parlarvi di un film del 2006, che ho visto ieri sera. Un'opera di una regista spagnola, Isabel Coixet, interpretata da Tim Robbins e Sarah Polley. Ieri sera, a fine film, ero interdetta; poi ho fatto sedimentare le emozioni e mi son convinta: "cazzarola che bel film!"
La vita segreta della parole si svolge in un luogo particolare, una piattaforma petrolifera in mezzo all'oceano: uno di quei non- luoghi dove l'isolamento può lacerare e distruggere, ma anche unire, far in qualche modo da collante.
Lui, Tim Robbins, è un uomo di mezz'età, gravemente ustionato e che non può vedere niente: un personaggio che ha fatto dell'ironia la sua arma di salvezza per affrontare il dramma interiore, quello che veramente brucia e che è legato a un tragico episodio del passato. Lei, Sara Polley, è una giovane infermiera con un problema di udito. Parla pochissimo, a bassa voce, comunica con gesti freddi, e non sorride mai. La giovane donna porta infatti dentro di se le ferite sesquipedali di una guerra, quella dei Balcani, che ha provocato milioni di morti e tanti reduci destinati alla disperazione eterna.
Sono entrambi dei sopravvissuti insomma, ed entrambi provano infinita vergogna: lui fa i conti con un doloroso passato privato; lei fa i conti con le atrocità di una guerra, fatto pubblico, che tutti cercano di dimenticare. Quando le loro solitudini si incontrano, quando l'intimità a poco a poco spezza il muro del silenzio, l'emozione è fortissima e il dramma viene trattato con una delicatezza e una sobrietà che impressionano. Non si sfiora mai la retorica, il gusto per il drammone o per la lacrima facile. Tutto è essenziale, asciutto e meravigliosamente vero. Il film qualche difetto ce l'ha, a dirla tutta, ma onestamente gli si perdona, perché trattare un tema tanto tragico con un tocco così azzeccato è veramente degno di nota. Bella la scelta delle immagini un po' sporche, grigiognole, volutamente tristi. Poetica la figuara del cuoco, interpretato da Javier Camara, che tramite i suoi manicaretti cerca di restituire alla ragazza quella gioia di vivere che tante atrocità sono riuscite a soffocare.
Per concludere, un'osservazione: è quasi paradossale che un film per buona parte basato sui dialoghi, cambi del tutto registro in seguito a un fatto che con le parole ha poco a che vedere. Il vero fulcro del film è legato a un gesto tattile: quando il protagonista tocca con le sue mani le cicatrici della donna, "quello che sembrava fino ad allora un film su un mondo di solitudini private diventa un film su una storia pubblica di sofferenze e di crudeltà, dove le persone portano sulla pelle i segni della brutalità umana", come dice Paolo Mereghetti.
Se solo non mi fossi addormentato sulla scena principale!
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