mercoledì 27 ottobre 2010

Il piccolo Nicolas e i suoi genitori

Devo molto a questo film. Per una sera mi ha fatto tornare bambina. E non è poco.

mercoledì 20 ottobre 2010

Quando una pubblicità descrive un intero paese


Questa è una campagna pubblicitaria uscita a Milazzo poco tempo fa (recentemente fatta ritirare dal ministro Mara Carfagna). Una campagna della ditta Cauldron Holding.
Quella di cui sopra è una pubblicità che si avvale di un doppio registro: linguaggio visivo e linguaggio verbale. Un linguaggio aiuta l'altro. Un linguaggio contribuisce a dar senso all'altro.
Sul fronte visivo abbiamo una donna nuda, al centro della pagina. Strano, non succede mai!
Una donna nuda in posizione di dubbio gusto (notare il sottile artificio retorico da me utilizzato per dire quello che realmente vorrei dire senza però dirlo) sopra un pannello fotovoltaico. La donna, che indossa tacchi vertiginosi, ha un volto chiaramente ammiccante. Nulla di cui stupirsi. Siamo in Italia: quando mai una donna in Italia può non ammiccare? Quando mai un uomo italiano può non voler avere davanti una donna che ammicca?
L'immagine è accompagnata dal messaggio verbale "Montami a costo zero", collocato sulla parte alta del manifesto, a sinistra, laddove sicuramente il destinatario della pubblicità avrà modo di soffermarsi fin dall'inizio. L'accoppiata "donna nuda - invito alla monta" dovrebbe attirare l'attenzione del maschio libidinoso, evidente destinatario della comunicazione, e convincerlo a passare all'azione: montare a costo zero.
La donna è pronta a esser soggiogata, l'uomo non deve far altro che procedere. Il verbo "montare" di per sé rimanda alla dominazione. Si monta un cavallo quando lo si vuole dominare, utilizzare per i proprio scopi. Chi si fa soggetto di un azione come montare prende una decisione chiara, definita, si assume in prima persona la responsabilità di una scelta. Colui che monta è un soggetto attivo, mai succube.
Qualora il destinatario (che probabilmente è troppo sessualmente eccitato per poter essere pure intellettualmente sveglio) non intuisse subito la duplice lettura del messaggio, la frase in basso a destra - e non è una caso che sia messa lì, nell'angolino - interviene a aiutarlo nella corretta comprensione. Il destinatario della pubblità, il solito maschio medio italiano con i genitali sull'attenti da mattina a sera, e con quel potere decisionale che da sempre lo contraddistingue, può adesso rendersi conto del doppio senso: "Em, parliamo del fotovoltaico".
Da sinistra a destra, dall'alto verso il basso, il possibile acquirente legge per prima cosa l'invito a montare a costo zero; poi vede lei, la preda. Sotto di lei c'è un pannello fotovoltaico ma quello, chissà come mai, tende a passare inosservato. Alla fine, in basso a destra, il destinatario della comunicazione trova la ricetta della giusta chiave di lettura. Come se gli elementi fino ad ora delineati non bastassero a palesare il vero senso della pubblicità, chi ha ideato la campagna ha voluto rinforzare il concetto specificando che il maschio libidinoso non deve montare la donna nuda dai tacchi a spillo, ma deve, aimè, accontentarsi di un pannello fotovoltaico. Al destinatario è comunque richiesto di compiere un ruolo attivo, ma l'oggetto su cui esercitare il proprio potere non è la donna, bensì il pannello.
L'accostamente donna nuda-pannello fotovoltaico è dettato da questo: entrambi gli elementi sono al servizio del maschio libidinoso; acquisiscono senso in relazione all'uso che ne fa il soggetto-destinatario.
Il messaggio di questa pubblicità è lampante: "Come monti l'oggetto donna puoi montare l'oggetto pannello". Il primo oggetto ti farà provare piacere, il secondo ottimizzerà i tuoi consumi.
In un certo senso c'è qualcosa in questa campagna pubblicitaria che la rende geniale.
Sovente funziona così: i segnali del degrado di un paese hanno qualcosa che affascina.

venerdì 15 ottobre 2010

Inception, un film sui sogni che non fa sognare

Dom Cobb lavora con l'inconscio: entra nei sogni delle persone per rubare loro idee da rivendere. Fa spionaggio industriale, ma all'ennesima potenza, in un certo qual modo. Un bel giorno un cliente chiede a lui e alla sua squadra di entrare nella testa di un concorrente non per privarlo di una sua idea, bensì per innestargliene una nuova: la frammentazione dell’impero industriale di cui è appena entrato in possesso.
Questa, in sintesi, la trama di Inception.
Da che mondo è mondo il cinema sa fare due cose: riflettere sulla realtà oppure originare sogni e illusioni. 
Fin dalle origini è stato così: Lumière documentava il vero, Méliès creava l'immaginifico. Da questa prima fondamentale dicotomia il cinema non ha più saputo prescindere. 
Per quanto la tecnologia si sia evoluta, alla fine la domanda resta questa: Lumière o Méliès?
Ebbene, Nolan sembra parteggiare chiaramente per il secondo, perché il suo obiettivo è sconvolgere lo spettatore, catapultarlo in una realtà aliena, destare in lui lo stupore.
Il problema è solo uno: per originare stupore ci vuole ben altro che la semplice tecnologia. La superfetazione di stimoli visivi e l'utilizzo di tecnologie all'avanguardia non garantiscono necessariamente una buona riuscita. Non a caso Inception mette in scena dei sogni che non fanno sognare, costruisce mondi altri che non hanno nulla di veramente irreale.
Parigi che si accortoccia su stessa è di grande effetto, così come lo è l'immagine dei grattacieli sulla spiaggia, evidente citazione da Il pianeta delle scimmie. Stiamo parlando però di due sequenze. Due sequenze in un film di due ore e mezzo.
Insomma, la trama è complicatissima e fin troppo cervellotica (viene il dubbio che il regista si compiaccia un po', a dirla tutta). Quello che dovrebbe essere l'elemento chiave di Inception, ossia l'aspetto visivo, è forse la sua principale debolezza, in un certo senso. Sul fronte visivo Nolan non sa stupire, non dice nulla di vagamente nuovo. Costruisce un impeccabile film d'azione, incapace però di emozionare. La parte del film probabilmente più interessante è relativa alla vita di Cobb, agli scheletri che porta dentro di sé e che lo perseguono.
Detto francamente però questo non basta. Il film non è brutto, ma ha ben poco da dire.

venerdì 1 ottobre 2010

Somewhere, un film "rovinato" dal suo predecessore

Johnny Marco, noto attore di Hollywood, passa le sue giornate a guardare le gambe. Prima quelle chilometriche, provocanti, delle lapdancer in completino da tennista che cercano di risvigliarne la libido; poi quelle delicate e eleganti di Clio, sua figlia, bambina di undici anni che volteggia leggera sui pattini, per attirare l'attenzione paterna. Le donne, in questo film, non fanno che esibirsi davanti a lui. La reazione di Johnny però è sempre la stessa: che si tratti di lapdancer o della figlia il suo sguardo è assente, annoiato, perso chissà dove. Delle lapdancer non ricorda neppure i nomi, e con Clio le cose non vanno poi molto meglio - lei pattina da tre anni e lui neanche lo sa, tant'è che si stupisce della sua bravura.
E' vuota la vita di Johnny, vuota e senza senso. Una vita vissuta in luoghi che sono non luoghi; trascorsa tra feste e divertimenti, in mezzo a corpi ammiccanti e sempre disponibili (corpi, però, mai persone). Una vita senza radici, senza affetti, senza qualcosa che la rende meritevole di essere vissuta. Solitudine estrema, alienazione totale.
E' di alienazione, infatti, che parla questo film. Sofia Coppola ce lo dice fin dalla prima sequenza, con quella inquadratura immobile - e non sarà certo l'unica del film - di una Porsche rombante che gira a vuoto (come la vita di Johnny, del resto), sul solito circuito chiuso. Una sorta di dichiarazione programmatica, un po' come se la regista ti mettesse in guardia: "attento, ti farò vedere un film che parla del vuoto di senso; se non lo sai sostenere ti conviene andartene subito via dalla sala".
Non è male il film della Coppola, solo che non regge il confronto con il bellissimo Lost in translation.  Lì l'alienazione manteneva comunque un lato umano; c'erano le sfumature, c'era la vita vera. Qui tutto è calcato, portato alle estreme conseguenze. Tutto è talmente esagerato da sembrare "macchiettistico", un po' artefatto, forse pure un po' furbetto, come sostiene Mereghetti.  Stephen Dorff è dignitoso nel ruolo, ma non ha il fascino di Bill Murray, non gli lega neppure le scarpe. Anche Los Angeles non compete con la Tokio di Lost in Translation, perché a Los Angeles tutti ci si aspetta di essere alienati, è scontato che sia così.
Per farla breve: Somewhere ha le sue cartucce ma ha un fratello maggiore troppo ingombrante, la sua è una battaglia persa in partenza.

La passione

Sovente quando uno esce dal cinema, dopo aver visto una qualsiasi commedia, e commenta: "si, carino, ma niente di che...", si sente rispondere qualcosa come: "certo si, è una commedia, non è il film che ti cambia la vita" oppure "si, che ti aspettavi, è una commedia, un filmetto...".
Questa è una delle dinamiche più frequenti. Tu fai notare che è un film di poco conto e la gente replica ribadendo che si tratta di una commedia, come se l'equazione "commedia = film di poco conto" fosse universamente valida. Come se un film, in quanto commedia, fosse necessariamente un filmetto.
Ebbene A qualcuno piace caldo, di Wilder, è una commedia, eppure non è un filmetto, è un capolavoro mondiale. Ernst Lubitsch ha fatto diverse commedie, ma ha segnato la storia del cinema. I suoi film son  meccanismi ineccepibili, puzzle dove ogni singolo pezzo si incastra alla perfezione con l'altro.
Non è lo status di commedia che rende un film etto-ino-uccio. Non è il "fare commedie" che rende un regista mediocre.
Semmai diciamo che quando una commedia non ha un ritmo coinvolgente, non brilla per coerenza-omogeneità della sceneggiutura, ha degli attori magari scadenti, dei dialoghi non sempre scoppiettanti/ben fatti, etc etc... le probabilità che venga definita commediola, o semplicemente film-etto-ino-uccio sono piuttosto elevate.
L'ultimo lavoro di Mazzacurati - la trama ve la faccio breve: regista in crisi creativa si ritrova a dover dirigere una sacra rappresentazione, in un paesino toscano, con una manica di attori raccattati e inetti - è senza dubbio piacevole, ma resta un filmetto. Parte frizzante e si perde sul finale; risulta disomogeneo in certi punti; presenta alcune gag a dir poco inflazionate.
Non che non faccia ridere - notevole Guzzanti che legge "Prima che il gatto canti tu mi rinnegherai"; non che non abbia trovate carine - la citazione stile Nosferatu quando il grande attore arriva in paese, ad esempio.  Il tutto è ben recitato, si vede con piacere... Ma resta un filmino, nulla di trascendentale.