martedì 31 maggio 2011

My son my son, what have we done?

Penso che le mamme andrebbero "uccise" verso i diciotto-venti anni, non oltre. Bisognerebbe ucciderle con violenza, e poi farle rinascere, per costruire con loro un rapporto veramente paritario. Bisognerebbe accantonare la rabbia adolescenziale e dar spazio alla tenerezza. Tramutare la rabbia in tenerezza. Riuscire ad affermare se stessi e la propria "adultità", senza per questo dover rinunciare al rispetto reciproco e alla condivisione.
Se fossimo in un mondo perfetto le cose andrebbero così. Nel nostro mondo invece è tutto diverso. I figli, specie i maschi, a quarant'anni hanno ancora bisogno della mamma per sapere dove tengono i calzini puliti. E se non è la mamma a dir loro dove trovarli, lo fa la compagna, il surrogato con meno rughe.
Le mamme incomcobono, straparlano, fagocitano. Il loro amore sovente soffoca e i figli faticano a crescere, a trovare la loro strada. I maschi son molto spesso succubi e le femmine non sempre se la passano tanto meglio.
Ebbene, l'ultima fatica di Herzog racconta di un matricidio. Uno di quelli veri, non metaforici. Racconta del delirio di un uomo che compie un gesto estremo per difendere-trovare-rivendicare se stesso. Racconta di uno che non ce l'ha fatta a tramutare la rabbia in tenerezza. Uno che c'è rimasto sotto, per intendersi. Purtroppo, nel far questo, il regista trascura l'analisi delle cause della tragedia. Concentrato nel trasporre visivamente e simbolicamente la follia del protagonista, cosa che tra l'altro gli riesce assai bene, Herzog fatica un po' ad andare oltre. Il film inquieta parecchio in certe sequenze, ma nel complesso l'operazione risulta un po' fine a se stessa, un po' superficiale e autoreferenziale.
Notevole il cast.

lunedì 23 maggio 2011

Revolutionay road

Ci son certi film che andrebbero visti da soli, in silenzio. Bisognerebbe permettere loro di invaderci, senza paura delle conseguenze. Revolutionay road è uno di quelli. Un film che merita il silenzio e la solitudine.
C'è qualcosa di sottilmente angoscioso che pervade questo melodramma. Fin dai primi minuti si ha la sensazione che ci sia ben poco da star sereni. Accadrà qualcosa di tremendo. Si tratta solo di capire quando e come.
Il film si svolge negli anni '50, in un sobborgo del Connecticut. I protagonisti sono giovani, belli, pieni di sogni e di speranze. Apparentemente hanno tutto - una bella casa, due teneri frugoletti, un futuro radioso. In verità si sentono svanire lentamente, giorno dopo giorno. Più la loro condizione socio-economica migliora, più aumenta il divario tra i loro sogni e la loro realtà, tra le illusioni giovanili e il grigiore della quotidianità. Nell'America precostituita del boom economico non c'è spazio per sogni e aspettative. Tutto ciò che conta in una famiglia è che la casa sia sempre in ordine, la moglie sempre sorridente e il marito sempre in carriera. Il resto è retaggio fanciullesco, sciocca ingenuità, inutile perdita di tempo.
Non è facile digerire un film così. Nella sua perfetta compostezza - niente sbavature, niente eccessi nella recitazione, nessun abuso di metafore e visioni simboliche - è lucido e spietato.

mercoledì 11 maggio 2011

lo stravagante mondo di Greenberg

Greenberg è un quarantenne newyorkese, rocker fallito, divenuto poi falegname,  appena uscito da un brutto esaurimento nervoso. Sta cercando di riprendere pieno possesso della sua esistenza ma fa una gran fatica. Il senso di vuoto è devastante per lui, l'angoscia esistenziale sovente lo paralizza. E' un nevrotico, un timido e sostanzialmente un infelice. Greenberg rimpiange i Duran Duran e percepisce nei ventenni di oggi "una sicurezza che è terrificante"; vorrebbe confrontarsi con qualcuno che conosca il significato di agorafobia ma intorno vede solo giovani "sinceri e interessati alle cose", figli di "genitori perfettini".
C'è un po' di Greenberg in molti di noi, secondo me.
Forse è per questo motivo che si tende a perdonare al film alcune lungaggini di troppo e qualche arrotolamento su se stesso: Ben Stiller è molto bravo a incarnare i mali della modernità e noi spettatori, che ci piaccia o meno ammetterlo, intravediamo in questo film qualcosa di familiare, di malinconico e di molto autentico.

lunedì 9 maggio 2011

The ward - il reparto

Classico horror psicologico ambientato in un manicomio. Nulla di nuovo. E' fatto bene, ha un cast accettabile, solo che è già visto. Non si ricorda i giorni successivi, non lascia molto su cui riflettere.
Un dignitoso prodotto di genere, insomma. Guardatevelo sul divano, in pieno relax. Mangieteci un gelato, semmai (tanto non inquieta a tal punto da farvelo restare indigesto), e godetevi la serata. Non aspettatevi il capolavoro però, perché ne rimarrete senza alcun dubbio delusi.