sabato 28 novembre 2009

L'onda

In Germania un giovane insegnante di educazione fisica con un passato da anarchico coinvolge i suoi studenti in un esperimento con la finalità di spiegare loro cosa significhi governo autocratico. Per una settimana gli studenti dovranno sottostare ad una disciplina piuttosto rigida,  indossare una divisa e soprattutto lavorare in un'ottica di organismo gerarchico ed unitario. Eventuali contestatori dovranno essere allontanati. Nel giro di pochi giorni l'insegnante perde il controllo della situazione e quello che doveva essere un semplice esperimento didattico diventa un drammatico esempio di vero e proprio regime. I ragazzi imparano ad affrontare le loro insicurezze, scoprono il cameratismo ma diventano pericolosamente violenti, anche al di fuori della scuola.
Tratto da una storia vera il film ha un suo fascino e sa indubbiamente tenere in tensione, anche se il finale melodrammatico gli fa perdere qualche punto.

venerdì 27 novembre 2009

In viaggio con Vaccari

Quando mi capita di fare un viaggio in macchina, anche non necessariamente lunghissimo, penso spesso a 700 km di esposizione, di Franco Vaccari. Una lunga fila di mezzi di trasporto merci per rappresentare il tempo che passa, le tappe che vengono percorse; una fila di mezzi apparentemente anonimi, bruttini, che ci aiutano a porre l'attenzione sul tragitto più che sulla mèta. Perché la mèta ha la sua importanza, sia chiaro, ma non è tutto. Nella vita talvolta bisogna anche arrivare da qualche parte, raggiungere un qualche obiettivo, qualunque esso sia. Diffidate di chi dice che conta solo il viaggio, la ricerca. Pensate a uno che sta due giorni nel deserto e cerca l'acqua ma non la trova: voi che dite, gli interesserà di più l'obiettivo finale o la ricerca in quanto tale?  
Be', detto questo c'è da valutare anche l'altra faccia della medaglia: la strada fatta per arrivare in un posto spesso non è meno importante della destinazione finale e il percorso realizzato per raggiungere un obiettivo non è meno importante dell'obiettivo stesso. O meglio, diciamo che dipende dai casi, appunto. Ad ogni modo, alle volte, è bello dimenticare la mèta e concentrarsi sul tragitto.

 700 km di esposizione, 1972


domenica 22 novembre 2009

Lucca Digital Photo Fest, cosa merita e cosa no

Ieri, come vi avevo accennato giorni fa, sono stata a Lucca, per il Digital Photo Fest. La giornata è stata bellissima e stimolante, ma molto faticosa, a onor del vero. Visitare tante mostre diverse in un solo giorno richiede energie non soltanto fisiche ma soprattutto mentali. Le mostre dislocate nella città sono in tutto venti: è chiaro quindi che se uno vuole vederle tutte deve prendersi almeno due giorni. In una sola giornata è comunque possibile vederne una buona parte, ma a mio avviso occorre selezionare e dare priorità alle cose veramente valide. Perché diciamocelo, ci sono anche opere un po' inutili. Io ieri non ho visto proprio tutto, ma quasi. Personalmente, ci tornassi domani, vedrei senza dubbio queste cose qui:
  • la mostra di Avedon, semplicemente splendida. Uno dei più grandi fotografi di moda è riuscito nel 1995, a circa settant'anni, a realizzare un ciclo di foto surreali che vedono la comprensenza di una modella tutta lustrini e fronzoli e di uno scheletro. Avedon sembra qui voler quasi sbeffeggiare-accusare il mondo in cui lui stesso per anni ha lavorato, ricordandoci in modo dissacrante il trionfo della morte su tutte le cose e la natura illusoria di quell'eterna giovinezza propostaci dalla moda. Oltre a questo bel ciclo di lavori compiuti in tarda età la mostra presenta anche una ventina di scatti "classici", tra i suoi più famosi.  Circa 40, in tutto, le foto esposte
  • il Word Press Photo, rassegna imperdibile delle 62 foto premiate quest'anno al celebre concorso di fotogiornalismo. World Press Photo è un'organizzazione olandese indipendente e senza scopo di lucro. Dal 1955, anno della sua fondazione, ad oggi, tale organizzazione si è fatta promotrice del più grande e prestigioso concorso annuale di fotogiornalismo al mondo. 
  • Estasi e memorie: nuovi 'scrolls', antologica 1960-2005, insieme di opere del giapponese Eikoh Hosoe, stampate su una carta piuttosto particolare (l'esposizione mi ha lasciato perplessa ma senza dubbio va vista, anche solo per confrontarsi con una cultura altra) 
  • la mostra, interamente in bianco e nero, su Cuba, di Ernesto Bazan, cinquantenne siciliano che a Cuba ha vissuto per anni: le foto di reportage si mescolano qui a foto più personali, che ritraggono la sua famiglia. Il tutto senza dubbio merita, ma richiede tempo, poiché i lavori esposti sono 118. 
  • l'esposizione dell'artista fiorentino Giacono Costa, dal titolo Natura Morta: una serie di grandi immagini a colori, realizzate per buona parte al pc, dove la natura vince sull'uomo, riprendodosi quegli spazi che fino ad ora la civiltà le ha ingiustamente portato via. (sconsiglia la visione ai duri e puri della fotografia classica)
  • la mostra di Maïmouna Patrizia Guerresi, Asilo polittico: pochissimi scatti, caratterizzati da soggetti grandi e contrasti cromatici forti. Una rappresentazione del mondo musulmano senza dubbio particolare e affascinante (interessante il fatto che i corpi di questi soggetti siano  "svuotati" e coperti da enormi manti colorati).
  • Schermo nero, notti bianche. Un viaggio nel cinema italiano. La bella mostra in bianco e nero di Claude Nori è perfetta per tutti gli amanti del cinema. Anzi, direi quasi imperdibile!
  • Camera oscura, esperimento suggestivo del duo Francesco Tommasi e Davide Regoli.
Probabilmente mi risparmierei invece la stanza dedicata a Nancy Fina (fotografa di moda) e le videoinstallazioni di Debora Vrizzi e Lucille Vrignaud, che onestamente ti fanno commentare: "si, e allora?"

Questo è quanto.

venerdì 20 novembre 2009

Lucca Digital Photo Fest

Lucca Digital Photo Fest
Per gli amanti dell'arte visiva credo sia un evento imperdibile. Personalmente non ci sono mai stata, e me ne vergogno quasi un po'. Domani finalmente rimedierò. Poi magari vi farò sapere se ne è valsa la pena o meno.

domenica 15 novembre 2009

Non si finisce mai d'imparare...

Ieri sera ho giocato a Trivial Pursuit. A un certo punto la squadra avversaria si è beccata la seguente domanda: quale film di Hitchcock è girato in tempo reale? "Cavolo, ma è Nodo alla gola!", mi son detta io tra me e me. Poi ho letto la risposta: c'era scritto Cocktail per un cadavere. Non immaginate la mia delusione...
Ebbene, poche ore dopo, con una certa soddisfazione, ho scoperto via internet che si tratta del medesimo film, distribuito con due nomi diversi.  Un vero e proprio classicone della cinematografia hitchcockiana. Un film del 1948, che ha avuto due straordinari meriti: essere girato in tempo reale (anche se comunque qualche taglio di montaggio ce l'ha, per cui non è proprio esatto dire girato in tempo reale) e mostrare per la prima volta sullo schermo una coppia gay. Sia chiaro: l'omosessualità dei protagonisti non è esattamente esplicita, ma comunque traspare, e per essere un film del '48...
Vabbe', ho capito, non vi tedio più. Faccio festa, promesso. Statemi bene e guardatevi Nodo alla gola, se ancora non lo avete mai fatto.

giovedì 12 novembre 2009

Il nastro bianco

"Non c'è niente da fare, Michael Haneke è un regista che sa come disturbare la mente dei suoi spettatori. Da buon studioso di Freud, sa che l'orrore non necessariamente va fatto vedere (come nei suoi "due" precedenti Funny Games ), basta lasciarlo aleggiare, coltivarlo in vitro, darne presagio ed egli darà comunque i suoi frutti." Così inizia la recensione de Il nastro bianco, a cura di Roberta Ronconi.
Peccato di non poter condividere tale osservazione, almeno per quanto riguarda l'ultima opera del regista austriaco, che è appunto Il nastro bianco.
Tralasciando infatti l'aspetto del contenuto, del messaggio che si suppone Haneke voglia mandare (vi consiglio a tal proposito la recensione di Paolo Mereghetti sul Corriere della sera, Rassegna stampa Il nastro bianco ), la prima osservazione che mi viene da fare è questa: il principale difetto della pellicola è proprio la sua incapacità di disturbare.
Il film racconta le vicende di un villaggio nella Germania degli anni '10. Un paesino di campagna dove la violenza pervade ogni cosa. Visivamente è bellissimo, ma emotivamente parlando non lascia niente. Non c'è una sola immagine che disturbi, che ferisca lo spettatore, che faccia aleggiare quell'orrore di cui parla la Ronconi.
La mente umana si può disturbarla attraverso ciò che le si mostra o attraverso ciò che le si nasconde, come osserva intelligentemente la giornalista. Penso a una splendida scena di Amen, film di Costa Gavras, in cui l'atrocità delle camere a gas non viene mai palesata; lo spettatore, innanzi a una porta chiusa, può soltanto intuire quanto stia accadendo al di là. Non vede nulla (solo il protagonista può avvicinarsi allo spioncino della porta, la macchina da presa non ci si avvicina mai), ma immagina tutto. E questo basta. Penso ancora al bellissimo Funny games, di Haneke, appunto, dove la violenza psicologica supera di gran lunga quella fisica, concretamente mostrata sullo schermo.
Purtroppo Il nastro bianco non riesce a creare effetti similari: non colpisce veramente né con quello che fa vedere né con quello che nasconde. Scene che dovrebbero essere drammatiche risultano grottesche, talvolta quasi comiche. La freddezza estrema della narrazione impedisce qualsiasi coinvolgimento e alcune situazioni sono esasperate al punto tale da apparire innaturali.
Insomma, non so voi, ma io son rimasta piuttosto delusa: mi aspettavo di esser "torturata" e invece son rimasta impassibile (anzi, per poco in certi momenti non mi è venuto da ridere).

mercoledì 11 novembre 2009

Quanta ignoranza nei fiorentini!

Non ho la pretesa di conoscere gli spettatori cinematografici di tutta la penisola,  ma in quanto assidua frequentatrice delle sale fiorentine, mi sento di poter dire due parole almeno sul pubblico di questa città. Mi è capitato di frequente, infatti, di assistere a scene molto drammatiche, o magari un po' forti, legate non necessariamente a sesso spinto, ma alla sfera della seduzione, e di notare nel pubblico attorno a me reazioni inaspettate: decisa ilarità, mugolio incontrollato, irritante chiacchiericcio; talvolta si arriva al chiasso da stadio. La cosa mi ha sempre lasciato perplessa e direi pure un po' amareggiata-infastidita. Tu sei al cinema davanti a un film pesissimo e la gente nella sala si schianta dal ridere. C'è una scena di sesso un po' diversa da quelle classiche e il pubblico va in delirio: risate, colpi di tosse, commenti a voce alta, schiamazzi più o meno eclatanti. Tu stai lì, sulla tua seggiolina, e ti dici fra te e te: "Ma che cazzo avranno da ridere?! Ma che cazzo ci sarà da mugolare?!"
Insomma, cosa spinge al chiacchiriccio incontrollato, alla risata isterica o peggio ancora alla cagnara più volgare? La gente fraintende il senso delle immagini che ha davanti? Forse non sa gestire il proprio imbarazzo? Reagisce alle emozioni sulle quali sente di avere scarso controllo? Com'è che il pubblico sembra regredire all'età puerile di fronte a certe tematiche? Onestamente non ho risposte da dare, ma temo che alla base ci sia un grosso problema di ignoranza, di grettezza, mi verrebbe da dire. Non credo che il pubblico confonda dramma e commedia. Credo piuttosto che, pur consapevole della pesantezza di quello che sta vedendo, fatichi a gestire le emozioni che il dramma tavolta suscita. Credo che si rifiuti di approfondire la natura di quelle emozioni e che quindi si difenda con il riso o con il commento più o meno inappropriato. 
Il problema, per concludere, non è l'ignoranza intensa come mancanza di conoscenza; è l'ignoranza nel senso più ampio del termine, cioè come mancata volontà di conoscere, di scoprire, di approfondire. Di mettersi in discusione, in due parole. L'ignoranza più pericolsa, a mio avviso, deriva sempre dalla chiusura mentale; da questo punto di vista la platea fiorentina sembra messa veramente maluccio.

domenica 8 novembre 2009

La vita segreta delle parole

Volevo scrivere un post sulle dinamiche inquietanti che s'innescano al cinema, davanti a certi film. La grezzezza del pubblico fiorentino (su quello di altre località non posso esprimermi) merita senza dubbio una riflessione, ma credo che per adesso rimanderò.
Mi preme infatti parlarvi di un film del 2006, che ho visto ieri sera. Un'opera di una regista spagnola, Isabel Coixet, interpretata da Tim Robbins e Sarah Polley. Ieri sera, a fine film, ero interdetta; poi ho fatto sedimentare le emozioni e mi son convinta: "cazzarola che bel film!"
La vita segreta della parole si svolge in un luogo particolare, una piattaforma petrolifera in mezzo all'oceano: uno di quei non- luoghi dove l'isolamento può lacerare e distruggere, ma anche unire, far in qualche modo da collante.
Lui, Tim Robbins, è un uomo di mezz'età, gravemente ustionato e che non può vedere niente: un personaggio che ha fatto dell'ironia la sua arma di salvezza per affrontare il dramma interiore, quello che veramente brucia e che è legato a un tragico episodio del passato. Lei, Sara Polley, è una giovane infermiera con un problema di udito. Parla pochissimo, a bassa voce, comunica con gesti freddi, e non sorride mai. La giovane donna porta infatti dentro di se le ferite sesquipedali di una guerra, quella dei Balcani, che ha provocato milioni di morti e tanti reduci destinati alla disperazione eterna.
Sono entrambi dei sopravvissuti insomma, ed entrambi provano infinita vergogna: lui fa i conti con un doloroso passato privato; lei fa i conti con le atrocità di una guerra, fatto pubblico, che tutti cercano di dimenticare. Quando le loro solitudini si incontrano, quando l'intimità a poco a poco spezza il muro del silenzio, l'emozione è fortissima e il dramma viene trattato con una delicatezza e una sobrietà che impressionano. Non si sfiora mai la retorica, il gusto per il drammone o per la lacrima facile. Tutto è essenziale, asciutto e meravigliosamente vero.  Il film qualche difetto ce l'ha, a dirla tutta, ma onestamente gli si perdona, perché trattare un tema tanto tragico con un tocco così azzeccato è veramente degno di nota. Bella la scelta delle immagini un po' sporche, grigiognole, volutamente tristi. Poetica la figuara del cuoco, interpretato da Javier Camara, che tramite i suoi manicaretti cerca di restituire alla ragazza quella gioia di vivere che tante atrocità sono riuscite a soffocare.
Per concludere, un'osservazione: è quasi paradossale che un film per buona parte basato sui dialoghi, cambi del tutto registro in seguito a un fatto che con le parole ha poco a che vedere. Il vero fulcro del film è legato a un gesto tattile: quando il protagonista tocca con le sue mani le cicatrici della donna, "quello che sembrava fino ad allora un film su un mondo di solitudini private diventa un film su una storia pubblica di sofferenze e di crudeltà, dove le persone portano sulla pelle i segni della brutalità umana", come dice Paolo Mereghetti.

giovedì 5 novembre 2009

Parnassus - L'uomo che voleva ingannare il diavolo

Il talento visionario di Terry Gilliam non passa mai inosservato. Pochi, oltre lui, riescono a ricordarci quel  mondo straordinario dove Melies, a inizio novecento, era solito catapultare il suo pubblico. Pochi, oltre lui, sanno sfruttare al meglio il fascino immaginifico della settima arte: la surrealtà, lo sguardo grottesco, talvolta allucinato e allucinatorio... la fantasia senza limiti e inibizioni. Figurativamente, insomma, questo suo ultimo film è meraviglioso: un trionfo di luci, figure, colori, immagini provenienti dai mondi più assurdi. Un ennesimo omaggio alla potenza salvifica della fantasia.
Eppure qualcosa manca: si esce dalla sala un po' interdetti. Forse la psicologia dei personaggi lascia a desiderare; forse il ritmo non è all'altezza di un film che dura oltre due ore; forse manca l'omogeneità fra le parti. Forse sono vere tutte e tre queste cose. Fatto sta che Parnassus ha un gran potenziale, non del tutto espresso.
Peccato, perché il cast è favoloso e la poesia delle immagini non manca.