venerdì 19 marzo 2010

Shutter island, dramma personale e ferita corale

"Dovevi salvarmi, dovevi salvarci tutti". Sono queste le parole che tormentano Teddy, il protagonista di Shutter Island. Ogni volta che lui si addormenta queste parole tornano ad ossessionarlo. "Perché non ci hai salvati?"
Siamo a metà degli anni '50. Teddy Daniels è un agente dell'FBI, ma è anche un reduce di guerra, uno di quelli che ha partecipato alla liberazione di Dachau. Recatosi insieme ad un collega in un manicomio, su un'isola a largo di Boston, per indagare sulla scomparsa di una paziente, Teddy sembra esser pronto a tutto pur di conoscere la verità. Qualcosa però lo turba: di notte fa sogni angoscianti e spesso ha delle tremende allucinazioni. Con lo scorrere del tempo il giovane agente si convince che in quel manicomio si compiano inquietanti esperimenti sui pazienti. Ma sarà vero o farà tutto parte di una sua allucinazione? Ovviamente svelare il finale sarebbe da sadici, per cui vi lascerò nel dubbio. Quel che posso dirvi, però, è che l'ultimo film di Martin Scorzese è un buon film. Ha un gran cast e una bellissima fotografia. Non offre nulla di particolarmente innovativo, ma sa tenere lo spettatore incollato alla sedia. In bilico tra thriller spicologico-politico, e melodramma gotico-psichiatrico, il film "scopiazza" un po' dall'espressionismo tedesco e un po' dall'orror anni '40, strizzando infine un occhio a un classicone hitchockiano come Io ti salverò. Se da un lato mi sento di condividere quanto scritto da Mereghetti, cioè che il film è ben lontano dal coraggio di sperimentare e di rischiare, trovo si debba riconoscere a quest'opera un indubbio merito, quello di far riflettere sulle atroci ferite che accompagnano da oltre un secolo l'umanità.

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